Era fine estate 1954, avevo circa sette anni, quando Maurizio, ad Ischia, mi fece questo ritratto. I miei genitori, Nino Numeroso e Anita Piccinni, si erano conosciuti con Maurizio e Litza già nei primi anni del dopoguerra, frequentando la sezione del PCI del Vomero. La frequentazione non si interruppe mai e ci si incontrava spesso anche durante le vacanze ischitane. E’ qui che io ricordo particolarmente Maurizio che era solito indossare un simpatico caftano, abbigliamento insolito e originale, cosa che mi colpiva molto. Il rapporto tra le nostre famiglie si è poi consolidato anche negli anni a venire. Quando nel 1965 ci trasferimmo in via Manzoni, a pochi metri dall’abitazione dei Valenzi, mia madre strinse ancor di più un legame di amicizia con Litza. Ho in mente la sua figura alta, elegante nei modi e nell’aspetto, madre apprensiva e accudente, che non ha mai perso quel suo accento francese che tanto la distingueva.
Maria Numeroso
Quel giorno era stata programmata una conferenza stampa nella sede della Federazione provinciale comunista in via dei Fiorentini a Napoli. Il dopo-Valenzi era stato assai tormentato in Consiglio comunale, caratterizzato da veloci cambi di sindaci e instabilità politica nella maggioranza di pentapartito. Nella tribuna stampa della Sala dei Baroni eravamo sempre gli stessi, in anni in cui non esisteva Internet, lontana l’era dei social e della proliferazione di tv, con le vicende comunali seguite solo da quattro quotidiani, qualche volta da un collega dell’agenzia Ansa e raramente da qualche giornalista della sede regionale della Rai. Così, a scrivere di Consiglio comunale e di vicende legate a palazzo San Giacomo, non eravamo mai più di cinque in tutto. La tribuna stampa di legno dove prendevamo posto, era proprio di lato ai banchi del gruppo consiliare comunista, di cui facevano parte, vado a memoria su alcuni, Maurizio Valenzi, Andrea Geremicca, Berardo Impegno, Nino Daniele, Guglielmo Allodi, Aldo Fermariello, Antonio Scippa, Aldo Cennamo, Osvaldo Cammarota, Benito Visca, Umberto Ranieri, Felice Ippolito come indipendente.
Il 27 marzo 1985, il gruppo consiliare comunista, insieme con i dirigenti locali del partito, fissò una conferenza stampa per spiegare ai giornalisti che seguivano le vicende comunali la propria dura posizione politica contro il voto al bilancio della prima giunta presieduta dal socialista Carlo D’Amato, salvata da due transfughi del Msi, partito che aveva allora a Napoli come capogruppo in Consiglio comunale nientemeno che il segretario nazionale Giorgio Almirante.
“Inquinamento del pentapartito”, “voti di due noti mazzieri fascisti preferito ai voti comunisti” furono alcune cose dette in quell’occasione a noi giornalisti.
Aspettammo che iniziasse la conferenza stampa, seduti attorno a un grande tavolo, mentre Marco De Marco, allora responsabile delle pagine napoletane de “l’Unità”, andava avanti e indietro da una stanza vicina dove qualcuno gli urlò qualcosa per rimproverarlo su un articolo pubblicato quella mattina.
Aspettavamo e seduto con noi, calmo e con l’inseparabile sigaro non acceso stretto tra le dita, c’era anche Maurizio Valenzi che scambiò a turno qualche battuta con noi giornalisti. Poi, a sorpresa, proiettando un frammento di poesia in un momento di tensioni politiche d’altri tempi, prelevò dei fogli A4 tra quelli sistemati al centro del tavolo per eventuali appunti. Tirò fuori una penna a china e, a uno a uno, in pochi attimi e con maestria, schizzò i ritratti dei cinque giornalisti in attesa attorno a quel tavolo. Per ognuno impiegò pochissimo, poi li firmava sotto con la data e li dava agli interessati. Mai, nella mia attività professionale, ho avuto attesa di conferenza stampa più preziosa. Ritrasse me che ero giovanissimo cronista della politica comunale e regionale per “Napolinotte”; poi Massimo Baldari, cronista politico de “Il Mattino”; Giuseppe D’Avanzo, allora vice corrispondente di Ermanno Corsi da Napoli per “la Repubblica”; Gigi Vicinanza, che seguiva il Comune per le pagine napoletane de “l’Unità”; Matteo Cosenza, informatissimo responsabile delle pagine napoletane di “Paese sera”. Tutti insieme, in una mattinata arricchita da quel regalo dell’ex sindaco delle prime giunte rosse, artista, uomo di cultura, che sapeva ricavare parentesi di poesia e arte in qualsiasi occasione.
Naturalmente, incorniciai subito quel foglio A4 con il ritratto, che campeggia nel mio studio di casa dove scrivo i miei libri. Quando lo guardo, mi tuffo all’indietro e, lo confesso, un po’ rimpiango.
Gigi di Fiore
Maurizio Valenzi, ovvero uno di quelli che dici: «Altra gente! Altri tempi! Altra razza!». Gente con ideali, con valori da rispettare anche se non erano i tuoi, gente che aveva faticato per un’idea di libertà e di progresso civile, quella “gente della guerra” che io non avevo mai vista e che della guerra portava addosso i segni dolorosi e spietati. Era il 1979. Si lanciava per la prima volta l’Estate a Napoli. Al Maschio Angioino non c’era uno spettatore a vedere Carlo Cecchi nella Mandragola promossa dal Comune di Napoli. Io che, lo sanno tutti, non ho mai condiviso l’idea comunista, ero “silenziato” alla Villa Pignatelli con la mia prima edizione del Sogno di una notte di mezza estate, recitato tra prati, fumi ed erbe della Riviera di Chiaia, e favorito da un misero contributo per l’allestimento ricevuto dall’Azienda Cura e Soggiorno. Era un successo formidabile. Tutta Napoli veniva a vedere a pagamento il mio spettacolo mentre quelli gratuiti del Maschio Angioino risultavano per lo più deserti. Maurizio Valenzi, artista e amante delle cose belle, venne a vederlo e mi mandò a chiamare. Mi chiese scusa per il fatto che il mio spettacolo non fosse stato inserito nella politicizzatissima rassegna comunale e dispose che il Comune comprasse tre recite del mio Sogno. Da quel momento lo spettacolo rientrò nell’Estate a Napoli, dalla quale solo per motivi politici era stato fino ad allora escluso. Fu allora che lo conobbi e ne scaturì una personale simpatia e stima reciproche, sia verso l’uomo che verso l’artista. Alla conferenza stampa per la chiusura dell’Estate a Napoli lo rincontrai. Sulla copertina del programma che illustrava quella prima rassegna, una foto del mio Sogno campeggiava a tutta pagina. Gli dissi: «…ma se lo spettacolo è stato finanziato per trenta recite dall’Azienda Cura e Soggiorno e solo per tre dal Comune!…». Mi rispose con un sorriso che non dimenticherò mai: «Caro Tato, noi comunisti siamo bravi a requisire tutto…». Scoppiai in una grande risata. Quanta intelligenza! quanta ironia! quanta umanità vera, quanto rispetto verso le idee degli altri in quelle parole! Dopo due giorni lo rividi: aveva deciso di mandare lo spettacolo a Roma nell’Estate Romana di Nicolini a rappresentare il Comune di Napoli. Fu un trionfo e da allora cominciò la mia storia vera nel teatro italiano. Altra gente! Altri tempi! Altra razza! Altri avversari! Altri uomini, soprattutto, che incontravano altri uomini. Auguri a te, grande sindaco e grande artista!
Tato Russo
Via Medina 5 ,sede CISL, incontro CGIL CISL UIL con il Sindaco di Napoli che volle ricambiare la visita dei sindacati sul “che fare ?” un programma per la città. Per la CGIL io, Lombardi, Carlo Cozzolino, Silvano Ridi; per la Cisl Rimesso, Ciriaco, Guardabascio, Viscardi; per la UIL Esposito, Popolillo, Alessio, Mattina. Alla fine, Maurizio, che aveva il dono di non perdere nessun passaggio mentre ” schizzava”, mi consegnò il “ritratto”…..ma ci sono tante foto “storiche” insieme…
Nando Morra
Dopo l’onda lunga del laurismo, populista e sgangherata, la fase segnata da Maurizio Valenzi al municipio di Napoli fu una ventata d’aria limpida e di costruttivo entusiasmo. Due volte, dal dopoguerra a oggi, e con due sindaci comunisti, la città ha vissuto giorni così colmi di iniziative e di vita: con Valenzi tra il 1975 e il 1983 e con Bassolino tra il 1993 e il 2000. Valenzi portò nel Comune la forza potente del militante internazionale e la fantasia esuberante dell’artista appassionato. Per qualche anno il mio insegnamento all’Università Federico II coincise con la presenza di Maurizio in Comune e furono anni di collaborazione intensa con ricerche sociologiche su tutti gli strati marginali della popolazione napoletana, dalle quali l’azione del sindaco seppe trarre spunto per iniziative che restano esemplari.
Domenico De Masi
Con Maurizio Valenzi si era instaurato un rapporto di profonda amicizia, con pazienza e passione mi raccontava per ore delle lotte politiche antifasciste a Napoli e in Italia dal periodo fascista al dopoguerra e della realtà dei due partiti comunisti a Napoli, i loro contrasti e le loro ragioni, in cui rientrava la storia di mio zio e di mio nonno, che fu senatore del P.C.I. nella III legislatura, Pasquale Cecchi. Mi suggerì di leggere il suo libro “C’è Togliatti”, in cui aveva raccontato parte di questa storia. Quel 15 agosto del ’96 fu un Ferragosto speciale, andammo a prenderlo nella sua casa di via Orazio, io e mio marito Claudio Talamas con mia figlia Eliana e i nostri amici/compagni greci, Vula Hantzara, Kostantinos Diamantis e il loro figlio George. Arrivammo a Sarno da Lucia che ci aspettava con la piccola Libara e la sua tata.
Maurizio, che non vedeva bene da qualche tempo, portò con sé un monocolo d’ingrandimento, perché aveva deciso di donarci un suo disegno all’impronta, così quel giorno tra un buon pranzo e un discorso e l’altro, tra la politica in Italia e in Grecia, volle donare ad ognuno di noi un ritratto, che realizzò con i fogli da disegno e i pennarelli di Libara, la sua amatissima nipote a cui non lesinava attenzioni e abbracci. Ci disse che ormai da tempo non disegnava più, era troppo faticoso per i suoi occhi, probabilmente sarebbero stati i suoi ultimi lavori. Un dono prezioso per noi.»
Carlotta Marvaso
Con Maurizio Valenzi ci frequentavamo negli anni Settanta a Napoli perché faceva parte di un gruppo di amici comuni tra i quali Franco Guerrini e Antonio Lupo. Lo incontrammo poi nel ruolo di Sindaco di Napoli quando nel 1977 ci venne affidato dal Comune il restauro della Cappella delle Anime del Purgatorio in Castelnuovo.
Nel 1979, su richiesta della locale sezione del partito, organizzammo una mostra antologica delle sue opere nella Biblioteca del Duca a Palazzo Ducale di Urbino, dove abitavamo.
Maurizio era entusiasta per la scelta di una sede così prestigiosa e arrivò da Napoli con Litza, Lucia e un gruppo di amici tra cui ricordiamo l’editore Gaetano Macchiaroli e l’ingegner Mascoli, padre di Giuseppe di cui poi saremmo diventati amici.
Furono giornate intense: dopo l’inaugurazione della mostra le visite ai luoghi d’arte si alternavano agli incontri che organizzavamo con i personaggi urbinati tra cui ci piace ricordare Umberto Piersanti, Giorgio Cerboni Baiardi e soprattutto Paolo Volponi.
Era il mese di aprile, il clima ad Urbino era ancora freddo, nebbioso; la sera ci si incontrava per cenare e fino a notte ci intrattenevamo ascoltando discussioni, aneddoti e ricordi di vita artistica e politica di Maurizio e dei suoi amici.
Maurizio e Litza soggiornavano nell’ala sinistra di Ca’ Rusciolo, l’antica costruzione a Borgo Mercatale di fronte alla facciata dei Torricini, di cui noi occupavamo la torre. In quell’occasione l’amico e proprietario Egidio Mengacci ci aveva concesso gentilmente di ospitarli e fu proprio lì che dopo un pranzo Maurizio chiese carta e penna e, senza farsene accorgere, schizzò rapidamente i nostri due ritratti cogliendo lucidamente le nostre identità e interpretandole secondo la sua sensibilità.
A Urbino, lontano per un attimo da Napoli e dall’impegno civile che lo assorbiva pienamente, abbiamo avuto modo di approfondire la sua conoscenza, di apprezzarne la vocazione artistica, la cultura, la gentilezza.
E’ stato un privilegio averlo frequentato e un dono prezioso essere stati ritratti da lui.»
Bruno Vittorini
Maria Benedetta Fazi
Con Maurizio Valenzi ci siamo conosciuti all’Auditorium della Mostra, nella stagione dell’Associazione Scarlatti 1979-80, eravamo entrambi appassionati di musica classica. Il “Duetto buffo dei gatti” di Rossini segnò l’inzio di piacevoli conversazioni negli intervalli dei concerti, e ricordo il senso di piacevole sorpresa che ebbi scoprendo un uomo colto, gentile, educato, pieno di energia ed entusiasmo, che non parlava di politica né faceva pesare il suo ruolo ad una giovane universitaria ventenne. Abitavamo entrambi in via Manzoni, mi parlò anche della sua passione per l’arte e la pittura e gli raccontai di mia madre, allieva di Emilio Notte all’Accademia di Belle Arti di Napoli, pittrice fino alla mia nascita. Questo lo colpì molto ed un pomeriggio di inizio gennaio mi invitò ad andare a vedere i suoi quadri. Scelse con cura la poltrona, grande e comoda, su cui dovevo sedermi, capii dopo che cercava la luce giusta, e mentre parlavamo di musica e vita napoletana, mi fece dono di questo ritratto. Una persona speciale prima di essere un grande politico, proprio per questo la nostra conoscenza ed il suo dono sono un ricordo prezioso.
Alcuni mesi fa ho ritrovato per caso in un libro, dopo averlo cercato invano per anni, un disegno che mi fu donato da Maurizio Valenzi. Il disegno fu eseguito nel corso di una delle tante riunioni che in quel periodo erano piuttosto lunghe ed impegnative. Valenzi usò due penne di colore diverso, blu e nero, e un mozzicone di sigaretta intinto nel residuo di un caffè. La particolare tecnica ha reso sfumature di colore ambra e in alcuni punti di colore grigio. Nel disegno furono ritratti gli assessori comunali Aldo Cennamo e Antonio Scippa e gli operai Vincenzo Barbato (segretario della sezione PCI dell’Alfasud) e Vincenzo Morreale (segretario della sezione PCI “G. Di Vittorio” di San Giovanni a Teduccio, operaio presso l’azienda grafica SAGRAF).Il disegno non reca la data e Valenzi lo firmò per gioco con il nome di Guttuso. Ho cercato di ricostruire il periodo a cui risale ripercorrendo i ricordi che mi accompagnano al 1983. La riunione era quella del Comitato Direttivo della Federazione Comunista Napoletana.Il 1983 fu un anno molto particolare a Napoli. Si concluse allora l’esperienza delle Giunte di Sinistra che avevano suscitato grandi speranze. Si insediò il pentapartito. Si consolido un’alleanza fra DC e PSI con l’obiettivo dichiarato di isolare il PCI e di estrometterlo dal governo delle città. Il Pentapartito sarà poi spazzato via da tangentopoli. Valenzi era allora uno dei maggiori protagonisti della vicenda napoletana in una fase resa estremamente difficile dalla crisi drammatica dell’apparato industriale, dalla gestione del post terremoto e dalla emergenza criminale e terroristica. Il PCI in quel momento era impegnato in una riflessione sui propri limiti e sulla prospettiva della città di Napoli e del Paese intero.
Enzo Morreale
Questo disegno di Saul Cosenza fu fatto da Maurizio Valenzi in una riunione del Direttivo provinciale della Federazione napoletana del Pci il 23 novembre 1971.
Il “compagno Saul” (15/7/1925-13/1/1981) era il segretario cittadino del partito a Castellammare ed era un operaio del cantiere navale, personalità di grande carisma e notorietà, molto stimato da Berlinguer che ne decise la cooptazione nel Comitato centrale del partito. Valenzi, con tratto sicuro e felice ironia, legò in un disegno il suo rapporto indissolubile con la città (proconsole con tanto di busto) e la sua storia (l’antica Stabia).
Saul Cosenza
Negli anni a cavallo fra il 1963 e il 1968, quelli del suo ultimo mandato di senatore, capitava che Maurizio venisse a cena da noi. Marisa ed io abitavamo a via Cortina d’Ampezzo, in una cooperativa a cui per nostra fortuna mio padre, dopo molti tentennamenti e perplessità, aveva aderito (gli sembrava ingiusto avere a Roma una casa di cooperativa, abitando con la sua famiglia a Napoli). L’aveva messa a nostra disposizione e Maurizio, quando non andava in albergo, stava con noi nei giorni in cui era impegnato nei lavori del Senato, è la casa in cui sono nati i nostri figli e in cui abbiamo abitato per oltre 40 anni. Avevo conosciuto Maurizio grazie a mio padre e al partito -“il partito”! una parola che se non era seguita da aggettivi, socialista liberale repubblicano, per noi significava PCI, il nostro partito- e ne era nata una reciproca simpatia. Con Marisa gli avevo chiesto di celebrare il nostro matrimonio, dopo che mio padre sì era sottratte a una nostra analoga richiesta (mica sono un patriarca della Bibbia). Ci ritrovammo così il 22 agosto del 62, all’indomani di una scossa di terremoto che c’era stato a Napoli, in un minuscolo ufficio della delegazione comunale dell’Arenella, Maurizio con la fascia tricolore su un abito scuro dietro una scrivani quasi schiacciato contro una parete su cui campeggiava il ritratto di Segni, presidente della Repubblica, affiancato da un funzionario del comune; noi di fronte con i testimoni e qualche parente che aveva trovato spazio in quella cella soffocante, mentre la folla di parenti e amici era assiepata fuori. Il caldo e la mancanza di aria fece si che tutto si svolgesse in pochi minuti: per l’emozione, Maurizio, nonostante le sollecitazioni del funzionario, lesse solo un paio di articoli del codice civile, trascurandone altri, e ci dichiarò marito e moglie. Con sollievo di tutti fuggimmo dall’ufficio comunale, per andarcene sulla bella e ospitale terrazza della casa dei miei alla Riviera di Chiaia. E qui Maurizio divertito e un po’ mortificato ci spiegò che si era emozionato e aveva momentaneamente perso la sua abituale disinvoltura perché era alla sua prima esperienza di ufficiale di stato civile. Marisa ed io potevamo vantarci di averlo tenuto a battesimo, come celebrante di matrimoni. Durante quelle cene romane e nelle lunghe serate che seguivano, nacque e si consolidò la nostra amicizia, che naturalmente si estese a Litza. Un lungo e caro rapporto affettivo durato decenni, che si è ancora più fortificato dopo la morte di mio padre, quando Litza e Maurizio mi hanno fatto sentire tutto il loro calore, trasferendo su di me una frazione del grande affetto che li legava a mio padre. La loro naturale generosità e la freschezza dei sentimenti che li ha animati, mi hanno permesso, sin dal primo momento, di avere con loro un rapporto paritario, anche quando le mie esperienze di vita, i miei interessi culturali, la mia ricerca di nuovi orizzonti mi portavano a percorrere altre strade dove scoprivo nuovi valori, nuove realtà politiche che nascevano nella società, spesso divergenti o contrapposti alle scelte del partito, ma senza mai rinunciare agli ideali di giustizia e di eguaglianza che erano stati alla base della mia scelta di campo. Da qui le inevitabile polemiche e discussioni che Maurizio e Litza affrontavano senza mai schiacciarmi sotto il peso delle loro personalità: rivoluzionari che in gioventù avevano animato la lotta antifascista in Tunisia, affrontando persecuzioni, carcere, torture e poi le asprezze e le difficoltà, di una diversa lotta politica nei primi anni di vita napoletana. Sempre pacati e decisi a difendere il partito e le sue scelte, anche quando in anni successivi -con coraggio, onestà e sofferenza- hanno voluto drasticamente rivederle. Una bella e cara amicizia che si è interrotta con la loro morte e il gran vuoto che hanno lasciato. Io cerco di colmarlo con i ricordi che ho di loro. Anche delle lontane serate di via Cortina d’Ampezzo, quando Maurizio in una pausa delle sue riflessioni di politica estera (la guerra del Vietnam, il Movimento dei paesi non allineati, il colpo di Stato in Indonesia, l’assassinio di Sukarno e di centinaia di miglia di comunisti) con una matita o una biro, sul primo foglio di carta che trovava, si metteva a disegnare: Marisa che allattava, Mario, Francesca che era la sua preferita, Giulio. Ricordo con precisione quei disegni che avevamo accuratamente riposto in una cartellina di cartone perché non si sciupassero e conservato in un cassetto della scrivania e mai più ritrovati, nonostante ricerche periodiche e ripetute; fino a quando abbiamo dovuto rassegnarci con l’impegno reciproco, fra me e Marisa, di non conservare mai più le cose che ci sono care, ma di tenerle bene in vista, a portata di mano.
Di quei disegni serali si è salvato solo quello fatto a mio padre: pochi tratti decisi di matita nera, un ritratto a mezzo busto, la faccia e la mano che regge la sigaretta colorata con caffè, dal dito di Maurizio immerso nella tazzina. Si è salvato perché papà volle farlo incorniciare subito.
L’altro, quello che mi ritrae e si va lentamente sbiadendo, Maurizio lo fece nel 91’, nella sua casa di via Manzoni. Ero seduto con Litza intorno al grande tavolo a centro del soggiorno e ci stavamo scambiando le ultime impressioni su un libro che avevamo appena letto, quando Maurizio con pochi tratti di penna mi disegnò. Per non correre rischi, l’ho incorniciato e messo nella mia stanza.
Ivan Palermo
Ritratto di Giulio Andreotti fatto da Maurizio Valenzi nel 1955 utilizzando una busta del Senato, oggi conservato nell’archivio Andreotti all’Istituto Sturzo.
Ringraziamo Serena Andreotti per averlo condiviso con noi.
Non rammento con esattezza il giorno in cui mi fu fatto questo ritratto, sicuramente siamo verso la fine degli anni 80. La sede, come testimonia anche la carta intestata su cui lo schizzo è stato eseguito, la ricordo bene: la redazione napoletana dell’Unità di via Cervantes.
Maurizio Valenzi era ancora Deputato Europeo ed io, da poco neo laureato, sognavo di diventare giornalista.
Avevo lasciato l’attività politica e la militanza già da qualche anno, proprio su suo consiglio.
“Studia!” mi aveva detto, ed io lo avevo fatto, per colmare quelle enormi lacune che con i suoi modi bruschi mi faceva notare.
Quando mi passo quel foglietto lo considerai un regalo per averlo ascoltato, ma lui, sicuramente, nemmeno si ricordava del consiglio dato a quel giovane di periferia che faceva il capetto senza cultura. Io lo ricordavo bene, invece.
Il documentario che molti anni dopo ho contribuito a realizzare sulla sua vita è stato anche un modo per ripagare a quel prezioso consiglio.
Mimmo Pennone
Ottimismo e speranza sono stati sintomatici di questo grande uomo. Li ha espressi chiaramente nel suo ultimo libro autobiografico intitolato “Confesso mi sono divertito”. Più che novantenne, con una vista sempre più debole, soprattutto dopo le insistenze di Litza, mi regalò i suoi cavalletti e i vari arnesi per dipingere. Conservò però per sé un cavalletto e una cassetta di colori, a Litza che gli chiedeva il perché, rispose che non si poteva mai dire, e che un giorno forse avrebbe potuto e voluto usarli.
Aldo Zanetti
Maurizio con Luciano Guarino, mio marito, ebbe un rapporto di stima e fiducia nell’ambito lavorativo poiché lo aveva scelto sulla base della competenza e dell’esperienza affinché entrasse a far parte del gruppo di lavoro accanto a sè durante il Commissariato per la Ricostruzione post terremoto 1980 e le sue aspettative non andarono deluse: Luciano lavorò moltissimo e bene in quegli anni difficili. Il ritratto, non a caso, lo coglie in una sua espressione tipica, di certo durante una riunione di lavoro a Palazzo San Giacomo: molto concentrato sulle carte, le dita che tormentano la fronte e i capelli… Mio marito aveva a sua volta grande stima nei riguardi di Maurizio ancor prima di essere da Lui scelto. Successivamente alla stima si aggiunse affetto profondo.
Per quanto riguarda invece il mio ritratto devo dire che ricordo solo che eravamo al Maschio Angioino per un convegno ma non saprei dire, a distanza di tanto tempo, se di carattere istituzionale o no. Ricordo però che io ero in prima fila ad ascoltare e Maurizio mi ritrasse senza che me ne accorgessi. Ero lì in rappresentanza della Cooperativa “Tre Ghinee-Nemesiache”, che Maurizio riconosceva ed apprezzava. Ma il rapporto personale di affetto e stima reciproca Lui lo aveva con Lina Mangiacapra , fondatrice e Presidente della Cooperativa.
Silvana Campese
Fui presentata a Litza e Maurizio negli anni ’80, quando egli, sindaco di Napoli, venne a Pozzuoli per la riapertura dell’Anfiteatro Flavio, breve apertura perché cominciò il bradisismo con conseguente evacuazione della città. Ci rivedemmo anni dopo per una mostra di Maurizio sulla Rivoluzione Partenopea, organizzata dall’associazione “Il Corvo”, da me ora presieduta. Ci incontrammo con Maurizio e poi conoscemmo Litza, fu un innamoramento, non ci lasciammo più. Furono carissimi amici senza barriere di tempo e di età.
Maria Guarino
Valenzi una persona molto affabile, con un bagaglio culturale pieno anche di ricordi. Alcune volte si parlava del suo passato trascorso in periodo di guerra, altre volte si parlava di arte e di commenti sulla città. Ho sempre stimato Maurizio per la sua leale onestà. Alcune volte passava al mio studio di pittura, forse proprio per il bisogno di disegnare. Infatti mi chiedeva sempre una matita e carta, credo che questo è stato uno dei suoi piaceri maggiori. Purtroppo per delle perdite di acqua nel mio studio si sono distrutti diversi disegni tra cui anche di Maurizio con mio grande dispiacere. La figura carismatica di Maurizio rimarrà per sempre nella mente dei cittadini napoletani e dei suoi amici come un personaggio da stimare e ricordare.
Diana Franco
Il disegno è datato al 21 febbraio 1992, mi ritrae durante una riunione. Non ricordo di cosa si discuteva, ma si trattava certamente di un direttivo del Pci in cui era presente anche Maurizio. Il disegno mi fu regalato subito dopo la riunione e ad oggi è nel mio Ufficio.
Un antico rapporto di conoscenza e stima mi legava a Maurizio, un rapporto rafforzatosi in un periodo particolarmente stimolante della mia militanza politica. Sono stato infatti responsabile della FGCI negli anni in cui Maurizio era sindaco: anni critici, ma di grande attivismo. Organizzavamo i giovani del Partito per portare i soccorsi in Irpinia e dare materialità alla lotta contro le infiltrazioni camorristiche del post-terremoto. Di quella riunione posseggo anche una foto.
Alessandro Pulcrano
Un freddo pomeriggio di molti anni fa – inverno 1980 – ebbi la fortuna, io giovane cronista di “Panorama”, di passare qualche giorno con Maurizio Valenzi, sindaco amatissimo di una città ferita dal terremoto eppure convinta di poter finalmente risorgere: nella disperazione, sommersa dai calcinacci, impaurita dalle crepe dei palazzi dei Quartieri Spagnoli, Napoli sognava un riscatto.
Furono ore di conversazioni appassionate, storia di ieri e cronaca vissuta. Il Palazzo del Comune, puntellato anch’esso, era un formicolìo incessante di disperati, senzatetto, bisognosi. Maurizio riceveva tutti, parlava con tutti, scendeva in strada, lasciava la piazza per il vicolo. Era sovrastato da un mare di dolore e di problemi irrisolvibili. L’intellettuale colto e sensibile comprendeva che la tragedia poteva diventare per Napoli l’occasione della resurrezione oppure rappresentare l’esito finale di una secolare stagione di degrado; l’amministratore appassionato si batteva senza tregua per i soccorsi, i finanziamenti, gli alloggi alternativi; l’uomo cercava di mediare tra le due anime del suo modo originalissimo di fare politica scagliandosi contro gli “acchiappanuvole” – li chiamava così – che pensavano solo alle magnifiche sorti e progressive senza curarsi del drammatico giorno per giorno.
Io ero affascinato da lui e dagli argomenti che sollevava. Due napoletani – un grande intellettuale e uomo politico e un giornalista alle prime esperienze – guardavano alla loro città con gli occhi di esperienze e lavori diversi e lontani. Nacque tra noi una forte simpatia. Tanto che a un certo punto, ricordando gli anni del grande sacco di Napoli che certo aveva avuto il suo peso negli esiti del terremoto, Maurizio mi mostrò un suo vecchio schizzo di vent’anni prima che mostrava in primo piano un Achille Lauro grottesco – quel naso, dio quel naso! – e sullo sfondo Palazzo San Giacomo e una fila di lecci sradicati: avrebbero lasciato spazio a quelle orrende fontane degradanti che i napoletani avrebbero presto ribattezzato ‘e vasche d’e capitune… All’estremo gesto di arroganza di un sindaco-padrone convinto di poter fare e disfare della città, all’atto simbolico del laurismo rapace e speculatore, il popolo aveva risposto con il consueto disincanto.
Il disegno era stato buttato giù di getto su un foglietto di carta rimediato in qualche cassetto della Sala dei Baroni. Me lo illustrò, me ne spiegò l’origine, rievocò l’agitata seduta del consiglio comunale dove fu presa quella misera decisione che poi avrebbe ispirato Francesco Rosi per una scena famosa del film “Le mani sulla città”, forse era stato anche pubblicato, su “Paese Sera” o su “l’Unità”, non ricordava bene, non ne era certo. E alla fine me lo regalò. Da allora lo schizzo di Maurizio mi ha accompagnato in ogni redazione dove ho lavorato. Occhieggia dalla libreria del mio ufficio, dietro la scrivania. L’ho messo lì di proposito: chi siede davanti a me inevitabilmente gli lancia uno sguardo e me ne chiede conto. Così, ogni volta racconto la sua storia. E ne sono felice e commosso, come il pomeriggio in cui Maurizio me lo allungò con un sorriso.
Bruno Manfellotto
Un freddo pomeriggio di molti anni fa – inverno 1980 – ebbi la fortuna, io giovane cronista di “Panorama”, di passare qualche giorno con Maurizio Valenzi, sindaco amatissimo di una città ferita dal terremoto eppure convinta di poter finalmente risorgere: nella disperazione, sommersa dai calcinacci, impaurita dalle crepe dei palazzi dei Quartieri Spagnoli, Napoli sognava un riscatto.
Furono ore di conversazioni appassionate, storia di ieri e cronaca vissuta. Il Palazzo del Comune, puntellato anch’esso, era un formicolìo incessante di disperati, senzatetto, bisognosi. Maurizio riceveva tutti, parlava con tutti, scendeva in strada, lasciava la piazza per il vicolo. Era sovrastato da un mare di dolore e di problemi irrisolvibili. L’intellettuale colto e sensibile comprendeva che la tragedia poteva diventare per Napoli l’occasione della resurrezione oppure rappresentare l’esito finale di una secolare stagione di degrado; l’amministratore appassionato si batteva senza tregua per i soccorsi, i finanziamenti, gli alloggi alternativi; l’uomo cercava di mediare tra le due anime del suo modo originalissimo di fare politica scagliandosi contro gli “acchiappanuvole” – li chiamava così – che pensavano solo alle magnifiche sorti e progressive senza curarsi del drammatico giorno per giorno.
Io ero affascinato da lui e dagli argomenti che sollevava. Due napoletani – un grande intellettuale e uomo politico e un giornalista alle prime esperienze – guardavano alla loro città con gli occhi di esperienze e lavori diversi e lontani. Nacque tra noi una forte simpatia. Tanto che a un certo punto, ricordando gli anni del grande sacco di Napoli che certo aveva avuto il suo peso negli esiti del terremoto, Maurizio mi mostrò un suo vecchio schizzo di vent’anni prima che mostrava in primo piano un Achille Lauro grottesco – quel naso, dio quel naso! – e sullo sfondo Palazzo San Giacomo e una fila di lecci sradicati: avrebbero lasciato spazio a quelle orrende fontane degradanti che i napoletani avrebbero presto ribattezzato ‘e vasche d’e capitune… All’estremo gesto di arroganza di un sindaco-padrone convinto di poter fare e disfare della città, all’atto simbolico del laurismo rapace e speculatore, il popolo aveva risposto con il consueto disincanto.
Il disegno era stato buttato giù di getto su un foglietto di carta rimediato in qualche cassetto della Sala dei Baroni. Me lo illustrò, me ne spiegò l’origine, rievocò l’agitata seduta del consiglio comunale dove fu presa quella misera decisione che poi avrebbe ispirato Francesco Rosi per una scena famosa del film “Le mani sulla città”, forse era stato anche pubblicato, su “Paese Sera” o su “l’Unità”, non ricordava bene, non ne era certo. E alla fine me lo regalò. Da allora lo schizzo di Maurizio mi ha accompagnato in ogni redazione dove ho lavorato. Occhieggia dalla libreria del mio ufficio, dietro la scrivania. L’ho messo lì di proposito: chi siede davanti a me inevitabilmente gli lancia uno sguardo e me ne chiede conto. Così, ogni volta racconto la sua storia. E ne sono felice e commosso, come il pomeriggio in cui Maurizio me lo allungò con un sorriso.
Bruno Manfellotto
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